DOSSIER A CURA DI CENTRO STUDI ENTI LOCALI
Ad oggi, poco più di metà dei comuni italiani (3.965) ha dematerializzato la tenuta e l’aggiornamento delle liste elettorali. Già nell’aprile del 2021, e poi ancora nel 2022, il Viminale aveva esortato tutti i comuni italiani che erano rimasti ancorati al supporto cartaceo, a digitalizzare prima possibile questo processo ma questi appelli sono praticamente caduti nel vuoto, portando all’adeguamento di soli 825 enti su 4.764 inadempienti, nell’arco di un intero anno. Anche sul fronte grandi città il tempo sembra essersi fermato. L’elenco dei capoluoghi di province e regioni che hanno compiuto il percorso di dematerializzazione è identico a quello di un anno fa: 68 capoluoghi di provincia e 13 città capoluogo di regione su 20. Nello specifico, Roma, Milano, Torino, Palermo, Genova, Bologna, Firenze, Bari, Venezia, Trieste, Perugia, Trento ed Aosta.
Ecco quindi che, per il terzo anno di fila, il Ministero dell’Interno ha indirizzato una circolare agli enti locali esortandoli a sostituire il prima possibile le liste elettorali cartacee con quelle elettroniche. Questo cambiamento porterebbe una serie di vantaggi economici, ambientali e organizzativi. Da un lato consentirebbe infatti di stampare molto meno, abbattendo i costi e aumentando la sostenibilità ambientale di questi processi, e dall’altro renderebbe più immediate le operazioni di aggiornamento del corpo elettorale.
Se i comuni italiani sembrano avere così tante difficoltà nel mettere in atto tempestivamente questo cambiamento, è difficile immaginare che si assisterà nel breve termine al passaggio – quello sì, epocale – al vero e proprio voto elettronico.
Eppure, la scadenza fissata dalla Commissione Ue nella Comunicazione COM (2021) 118 final “2030 Digital Compass: the European way for the Digital Decade” del 9 marzo 2021, non è così lontana. Stando a questo documento, entro il 2030, tutti gli stati membri dovranno essersi attivati per far sì che la vita democratica e i servizi pubblici online siano completamente accessibili a tutti, anche alle persone con mobilità ridotta. Una delle strade indicate da Bruxelles per raggiungere questo obiettivo è, appunto, la diffusione del voto elettronico.
Il primo vero banco di prova su vasta scala del voto digitale avrebbero dovuto essere le amministrative 2022 ma una proroga, arrivata in zona Cesarini, ha posticipato il tutto.
Ad oggi, dunque, le uniche vere sperimentazioni, sebbene in ambiti circoscritti, sono state due.
La prima è stata in occasione del referendum regionale sul regionalismo differenziato veneto-lombardo. Correva l’anno 2017. In Lombardia, furono messe a disposizione degli elettori, all’interno delle cabine elettorali, delle “voting machine”: dispositivi simili a tablet attraverso i quali potevano essere espresse le proprie preferenze.
Quella è stata la prima sperimentazione italiana del voto elettronico e dello scrutinio digitale ma non del voto a distanza, perché che gli unici dispositivi abilitati per partecipare al referendum erano fisicamente localizzati nei seggi elettorali e non era quindi possibile votare collegandosi, ad esempio, con il proprio pc da casa.
L’unico tentativo di voto da remoto fatto ad oggi nel nostro Paese è stato quello dell’elezione dei Comitati degli italiani all’estero. Era il 3 dicembre 2021. In quell’occasione, 7.756 elettori, residenti in nove sedi diplomatico-consolari e iscritti nell’elenco degli elettori per le elezioni dei Comites, hanno avuto la possibilità di esprimere il loro voto anche in modalità digitale, per mezzo dello Spid di secondo livello.
Una maggiore diffusione di formule di questo tipo garantirebbe diversi vantaggi. Prima di tutto, consentirebbe – in una fase in cui l’astensionismo è dilagante – una maggiore partecipazione alla vita democratica del Paese da parte di chi ha problemi di mobilità o non può essere fisicamente presente nel proprio comune di residenza in occasione delle elezioni, per impedimenti legati a lavoro o studio, ad esempio.
Ma il voto digitale, e quindi con più automatismi, porterebbe anche a realizzare dei risparmi di spesa, ad esempio, sul fronte degli straordinari elettorali. Ad oggi le tornate elettorali gravano in maniera importante sugli organici comunali e molto spesso l’unica risposta possibile per portare a termine tutti gli adempimenti connessi alle elezioni è ricorrere agli straordinari. Questo impatta negativamente sui conti pubblici e crea una serie di problemi organizzativi soprattutto nei piccoli comuni dove spesso il numero dei dipendenti è ridotto al lumicino.
La durata media dell’orario di lavoro dei dipendenti comunali, secondo le disposizioni contrattuali vigenti, non può infatti superare le 48 ore settimanali, comprensive del lavoro straordinario, calcolata con riferimento ad un arco temporale di sei mesi, anche nella ipotesi di lavoro straordinario per motivi elettorali. Inoltre, il lavoro straordinario autorizzato deve essere non superiore in media a 40 ore mensili fino ad un massimo individuale di 60 ore. Un limite, quello delle 40 ore mensili, che non si applica solo nei comuni che hanno fino a 5 dipendenti.
Fonte: articolo di redazione entilocali-online.it